sia al modello piemontese, sia a quello francese e ungherese.
Tra le viti idonee a dare buon vino egli cita, fra le no-
strane, la Gatta, la Negrara, la Corbinona e, fra le estere, l’uva
di Borgogna e il Pinot noir.
Nel 1843 l’ingegnere Antonio Sette, studioso di agricol-
tura, presentava la situazione della viticoltura collinare da un
altro qualificato punto di vista.
Egli, nel raccomandare di scegliere vitigni adatti a dare
buon mosto, così si esprimeva al riguardo: «Le uve migliori in
Provincia sono conosciute coi nomi di rossetta, merzemina,
pataresca dal picciuolo rosso, corbina e friulara: per lo con-
trario sarebbero da abolirsi collo schianto le così dette pigno-
la, grassara, venti-perga, osellina, agostana, agostanella, bian-
ca-rabbiosa, e forse altre ancora» 25) .
Fra i tanti utili consigli, l’autore suggeriva anche quello
di fare gli innesti nel mese di aprile, quando la vite, secondo
il detto comune, “piange”; per quel che concerne la vendem-
mia, egli esortava a farla solo quando l’uva avesse raggiunto
il massimo grado di maturazione.
Più avanti troviamo le lodi per i distretti di Teolo, Batta-
glia ed Este dove i vigneti erano allevati a palo secco, metodo
che incideva senza dubbio positivamente sulla qualità delle
uve. Teolo viene di nuovo citato per i suoi famosi vini dolci;
lodati sono pure Galzignano ed Arquà per i vini prelibati e
dolcissimi.
Il Sette affermava, infine, che si doveva tener presente
anche la «così detta uva garganega», la quale dava «un liquo-
re dolce, saporito e durabile», coltivata sui pendii dell’Esten-
se, dove le viti si legavano a palo secco e producevano uve
dolcissime, però solo da tavola 26) .
25) Sette A., L’Agricoltura veneta, Padova 1843, p. 97.
26) Cfr. Sette A., L’Agricoltura, p. 108.
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