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portare l’aratro e a produrre grano ed auspicava pertanto che la pianura, in questo, fosse di “suffragio” alla montagna. Nella descrizione del vigneto – prediletto più del pesco, del ciliegio e di altri alberi da frutto – egli elencava anche i motivi per i quali era più favorevole alle vigne sposate a pian- ta viva, anziché a pertica o palo, motivi che consistevano in un minor dispendio di fatica e di spesa, in una migliore dife- sa contro la grandine e le intemperie e nel ricavo di legna da ardere e fogliame per la stalla 23) . Anarchia nelle colture, moltiplicazione incontrollata delle qualità, ignoranza delle tecniche erano, tuttavia, carat- teristiche ancora molto diffuse, al punto che il conte Pietro Maniago, incaricato dalla Corte di Vienna di redigere nel 1823 il “Catalogo delle varietà di viti del Regno Veneto”, scri- veva nei suoi appunti che l’elenco – riportante ben 240 va- rietà – avrebbe potuto essere molto più lungo!… Verso la seconda metà del secolo troviamo, come s’è det- to, l’opera del Selvatico che propugnava, nel campo della vi- ticoltura, una riforma radicale consistente nella separazione delle colture e nella sistemazione dei vigneti a palo secco. Dopo aver lodato l’agricoltura romana, quella di Colu- mella e di Varrone che descrivono il vigneto, il frutteto, il campo arativo e il prato separati fra loro, si soffermava sull’a- gricoltura dei Colli suggerendo di piantare uve sceltissime nei versanti a sud, dove il terreno era simile a quello che in Sici- lia produceva uve rinomate 24) . Riguardo all’utilità di adottare vigneti a palo secco egli, a ragione, sosteneva che la vite non fruttifica bene se un’al- tra pianta le sottrae alimento e in questo dichiarava di rifarsi 23) Cfr. Barbieri G., Veglie Tauriliane, Padova 1821, pp. 53-61. 24) Cfr. Selvatico P., Sull’utilità, p. 199. 27