è influenzata dallo stile comuni-
cativo, che come comunichiamo
è altrettanto importante di ciò
che facciamo.
Dall’esperienza in carcere, mi
ha molto colpito l’utilizzo di ter-
mini come "mangime" riferito alla
terapia farmacologica. Sono frasi
che fanno pensare a un logorio
del lavoro terapeutico oppure alla
necessità di segnare un confine
tra "noi" e "loro".
Vengono poi evidenziate al-
cune esperienze cliniche, da cui
emergono atteggiamenti di giudizio
e di attribuzione di responsabilità
della situazione.
Qualche anno fa un paziente,
in un periodo molto critico della
sua storia di dipendenza, aveva
provato a iniettarsi in una mano
dello iodopovidone (un disinfettan-
te!) causandosi un’ischemia, una
necrosi e infezione che gli ha poi
fatto perdere alcune dita della
mano... Ricordo giorni convulsi in
cui i consulenti lo "rimpallavano"
in ospedale fra diverse Unità ope-
rative, dando proprio quel senso
di "non presa in carico" che clas-
sicamente scatta quando si pen-
sa: guarda questo qui cosa si è
procurato!
Dopo che finalmente si era
realizzata la possibilità di curare
vari problemi dentari di pazien-
ti tossicodipendenti, una colle-
ga incrociandomi nel corridoio
dell’ospedale mi dice in modo
serio-scherzoso: "Ma che persone
ci mandate?". Rispondo: "Persone
che hanno problemi di denti".
Una serie di narrazioni evidenzia le emozioni ne-
gative vissute dai pazienti a seguito dello stigma,
come la vergogna e la rabbia.
Ci sono persone a cui domando: «Perché hai
aspettato tanto a rivolgerti al Servizio?» e mi dico-
no: «Perché provavo vergogna a essere considerato
un tossico».
La rappresentazione del S erd , ancora diffusa,
come il servizio che tratta esclusivamente eroino-
mani rende per molte persone difficile rivolgersi,
proprio per timore dello stigma sociale.
Ho in mente la rabbia di una persona che, per la
sua sieropositività, non aveva ottenuto un ricovero in
un reparto sociosanitario di lungodegenza, ma era
stata inserita "impropriamente" in una comunità per
tossicodipendenti.
Ci sono poi esperienze in cui si è assistito a conse-
guenze negative sulla cura correlate ad atteggiamenti
stigmatizzanti (ne parleremo più avanti).
Ricordo un paziente ricoverato in chirurgia per
calcolosi biliare. Il medico di guardia (ricordo an-
cora il nome) chiese: "Fa ancora uso?". Alla mia ri-
«Nel lavoro in carcere
mi ha colpito l'utilizzo
di termini come
mangime riferito alla
terapia metadonica.
Segno di un logorio degli
operatori o dell'esigenza
di segnare un confine
tra "noi" e loro"».
Le conseguenze
dello stigma sui pazienti