LA LOTTA DI GIACOBBE la-lotta-di-giacobbe | Page 33
Durante l’esecuzione mi sono posto per la prima volta la domanda
- finora prorogabile rispetto a certe prioritarie istanze compositive -
“Ma chi è chi?”, “Chi dei due è Giacobbe, chi il suo avversario,
angelo o Dio che sia?”. Inconsciamente associavo l’aranciato a Dio,
forse influenzato dalle tradizioni indiane che mettono in corrispon-
denza i tre colori primari alle tre qualità intrinseche della realtà,
ai tre guna: il giallo a sattva, luminosità, purezza, virtuosità,
saggezza, spiritualità; il rosso a rajas, attività, passione,
desiderio; il blu a tamas, ignoranza, torpore, indolenza.
Ma i conti non tornavano rispetto alla disposizione delle due figure.
Finché un amico pittore, passato a trovarmi, mi dice «Che bello
l’incarnato di Giacobbe! Dà il senso della sua umanità!».
Tutta la mia stentata interpretazione provvisoria si è ribaltata
in un attimo! E tutto tornava! È il non-colore che compete al
trascendente. Siamo noi quelli incarnati, quelli “colorati”.
E’ Jahvè - la J grigia - che assale Giacobbe da dietro e lo
aggancia, che lo sormonta nel confronto verbale e lo abbraccia
con la sua benedizione.
In merito alle diciture, abitualmente inserisco delle scritte nei
miei quadri, o perlomeno dei caratteri grafici. È una modalità che
impiego fin dall’inizio della mia produzione. D’altra parte molta
arte visiva si avvale da sempre d’iscrizioni. In oriente, in
particolare in Cina e in Giappone, è tradizione associare alle
immagini la calligrafia di testi poetici. Gli affreschi medioevali
spesso sono integrati da didascalie, dai nomi dei personaggi o da
vere e proprie locuzioni. Per l’arte moderna basti ricordare
“Ceci n’est pas une pipe” di Magritte o la pop art in generale
che ha sublimato il linguaggio della comunicazione di massa
(la pubblicità, il fumetto) e la sua grafia.
Utagawa Hiroshige, 1797-1858
Arazzo di Bayeux, XI secolo