Il foglio dell'Umanitaria n. 1 febbraio-maggio 2016 | Page 8

il FOGLIO dell’Umanitaria 8 La voce di Calamandrei per i giovani Il 26 gennaio è ormai una data storica della Società Umanitaria. Già, perché da quel lontano giorno del 1955, la voce di Piero Calamandrei – grazie ad una registrazione audio tanto preziosa quanto fortuita, visto le apparecchiature dell’epoca – può continuare a vibrare e a parlare agli animi delle nuove generazioni, così come accadde la prima volta nel Salone degli Affreschi gremito di studenti. Oggi come allora, il “Discordo in difesa della Costituzione”, trascina e commuove, come abbiamo sempre potuto constatare dalla concentrazione con cui i ragazzi lo seguono. Per il secondo anno consecutivo, abbiamo voluto legare la commemorazione del Discorso di Piero Calamandrei al percorso di studio di “Cronache dalla Resistenza”, un progetto dell’Archivio del Lavoro rivolto alle scuole superiori, incentrato sulla nascita della Repubblica italiana e finalizzato alla realizzazione di cortometraggi autoprodotti dagli studenti sui valori della Repubblica e della democrazia. Un’iniziativa perfettamente in linea con lo spirito del grande giurista fiorentino, che metteva in guardia dall’indifferentismo alla politica e spronava i giovani ad una partecipazione attiva, poiché “la Costituzione”, diceva, “in parte è ancora un programma, un ideale, un impegno da compiere. Quanto lavoro avete da compiere, quanto lavoro vi sta dinnanzi!”. Auguriamo buon lavoro a tutti gli studenti, proponendo per la prima volta su carta stampata il testo dello scrittore Giorgio Fontana che l’anno scorso è stato nostro graditissimo ospite durante l’immancabile appuntamento con Calamandrei. (d. v.) La pervasività degli ideali della Resistenza nell’opera di Calamandrei è assoluta: egli crea una “figura” resistenziale che svolge un compito non storico, ma eminentemente etico.Vi leggo un altro suo brano: “Nelle celebrazioni che noi facciamo in occasione del 25 Aprile, noi ci illudiamo di essere, qui, vivi a celebrare i morti. E non ci accorgiamo che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi a un tribunale invisibile, a rendere conto di quello che in questi anni possiamo aver fatto per non essere indegni di loro, noi, vivi”. Ma uno può domandarsi: bene, stringe il cuore, però una volta terminata la lettura o l’ascolto? Che faccio? Non dobbiamo pensare al discorso di Calamandrei come a un bel reperto storico da tirare fuori nei momenti in cui tutto sembra andare storto; o come a un gingillo da usare per giustificare qualche pensiero nostalgico, cui l’Italia è sempre stata molto prona: ah, a quei tempi! Ah, ridateci quegli uomini! No. Questo vorrebbe dire fare a pezzi tutte le premesse che animavano quel discorso come tanti altri: non dobbiamo chinarci all’altare della nostalgia; dobbiamo prendere spunto per essere noi quegli uomini. Come di fronte al "tribunale etico" degli antifascisti. Che di fondo erano ragazzi come voi, molto spesso. I più famosi: come Piero Gobetti (morto a ventiquattro anni – io ne faccio trentaquattro a breve!), o come i grandi comandanti partigiani; e i più oscuri, i dimenticati, quelli che si sacrificarono “per dignità e non foto Jacopo Barsotti Giorgio Fontana con Arturo Colombo e Salvatore Veca in Umanitaria nel 2015. Nella pagina a fronte, Simone Campanozzi illustra le pagine di Calamandrei ad un gruppo di studenti nel nostro Auditorium (2016). per odio”, come diceva Calamandrei nella sua famosa poesia sul camerata Kesserling, quelli che mai dovremmo dimenticare. Mai. Dovremmo portar loro un fiore: e il nostro fiore dovrebbe essere l’impegno quotidiano. Proprio per far fronte a tale dimenticanza Calamandrei forgiò il termine desistenza, che è esattamente il contrario di ciò che la Resistenza fu: “la facilità di oblio, il rifiuto di trarre le conseguenze logiche della esperienza sofferta, il riattaccarsi con pigra nostalgia alle comode e cieche viltà del passato”, e così via – ancore parole sue. Desistere significa, soprattutto, dare per scontato ciò che non lo è; ciò che richiede un lavoro costante per essere mantenuto vivo. La tensione civica non si riduce insomma alle belle parole e agli slogan. Di certo non si riduce all’esercizio della politica come mera espressione di voto, o gioco partitico, o disimpegno mascherato da dovere, nel senso de “il mio dovere l’ho fatto, ho votato, ora posso anche fregarmene”. Ascoltare quelle parole è anche un invito a non pensare continuamente il ritornello della delega, che non è dissimile dalla barca che affonda e di cui nessuno frega nulla. La Costituzione, in questo senso, è un modello; uno schema, una funzione d’onda. Fornisce una struttura da r