magari paralleli, magari successivi che verranno attivati a seconda della necessità: dobbiamo sapere che ci sono. Il livello
di resilienza dei migranti forzati è così alto che non è lontanamente confrontabile a quello che ognuno di noi può avere e
le strategie messe in atto come risposta alla sopravvivenza li
portano ad avere diverse vie di fuga e di salvezza anche dalla
difficoltà di inserimento lavorativo, abitativo e sociale in Italia.
Quindi non si tratta solamente di uso e consumo delle risorse,
si tratta di resilienza e adattamento: se non si trova qui la
risorsa che si cerca è ovvio che si va altrove.
3) Rispetto all’ultimo punto: penso che l’attitudine a trovare
risposte rapide a bisogni immediati sia una caratteristica importante che hanno le persone che fuggono, una modalità di
approccio alla vita di cui non ci si libera facilmente anche in
presenza di situazioni non-emergenziali. Questo condiziona il
modo di agire e di progettare e bisogna tenerne conto quando
si propone un “nostro” modo di fare progetti di vita, progetti
che sono tendenzialmente più ponderati, più pensati e con
step di medio-lungo periodo.
Ora, ritengo che tenendo conto di questi tre aspetti sia più
semplice e meno frustrante sviluppare dei progetti di accoglienza sensati, utili alle persone e non al sistema.
Lo scopo del buon operatore è cercare di fornire alle persone
accolte gli strumenti necessari al loro percorso di vita, percorso che viene fatto assieme per una piccola percentuale e che
proseguirà magari qui, magari altrove.
Infine, cosa succede usciti dai progetti di accoglienza? In
base ai vissuti che ho conosciuto ho individuato una serie di
percorsi/esiti differenti: c’è chi rimane sul territorio biellese in
modo semi-autonomo; sto pensando ai casi di accoglienza in
famiglia o in case condivise, persone che hanno un tirocinio
lavorativo o addirittura un contratto di lavoro più o meno stabile; c’è chi rimane sul territorio biellese in modo non autonomo;
penso ai casi in cui le persone passano da un servizio ad un
altro o da un progetto all’altro e di solito sono persone che
hanno interiorizzato un approccio molto assistenzialista e che
non fanno nulla o fanno poco per rendersi autonomi e per
svincolarsi dagli aiuti statali, anzi ingrossano le sacche della
povertà locale cercando di elemosinare piccoli progetti di assistenza; c’è chi lascia la nostra piccola provincia biellese per
andare in una grande città dove ha contatti di connazionali e
qualcuno che lo aiuta a trovare casa e lavoro, magari in nero;
c’è chi lascia la provincia e prova a vivere in città italiane di-
verse, facendo tentativi qua e là, attivando tutte le reti di supporto;
c’è chi si dirige senza pensarci due volte verso quelle realtà
del sud Italia dove il caporalato la fa da padrone sicuri di trovare un lavoro, non importa se da schiavi, prevalentemente
nell’agricoltura (Puglia, Calabria, Campania...Rosarno è la
meta più conosciuta); come disse un ragazzo del Senegal “il
lavoro nero lo conosco meglio di voi e non mi spaventa, devo
pur mandare dei soldi a casa, voi qui non avete le arance e i
pomodori, giù li hanno”;
c’è infine chi prende la via dell’estero, fuori dall’Italia (Centro
e Nord Europa) e gira, passando da un paese all’altro, rientrando un pò in Italia, in ogni caso infrangendo le normative
ma trovando di che campare. E’ personalmente l’esito che più
mi affascina soprattutto in questi anni, in questi giorni in cui
si grida alla chiusura delle frontiere, è la prova che alzare le
frontiere non è la risposta, non serve.
Ho un pensiero che mi accompagna, un paradosso continuo
del mio lavoro di operatore legale: ho il dovere di spiegare e
far conoscere la normativa, le leggi, i diritti e i doveri, cosa
si può e cosa non si può fare in Italia e in Europa, e cosa mi
trovo davanti? Persone che riescono ad aggirare le leggi, che
trovano spiragli di passaggio fuori dalle norme, che tentano
e riescono, magari non sempre, ma spesso sì. Trovo la resistenza, la disobbedienza, l’alternativa.
E qui sta il nodo della questione: se non vogliamo che tutti
scappino via, se vogliamo dare l’opportunità a tutte queste
persone di diventare i nuovi cittadini del nostro paese che
contribuiscono alla crescita e allo sviluppo dello stesso allora
dobbiamo darci da fare e creare le condizioni perchè questa sia davvero una scelta possibile, se invece come sistema
paese Italia siamo in grado di offrire poco, allora le persone
cercheranno altrove la propria strada, sono in grado di farlo
proprio per quel discorso di resilienza di cui sopra; se il nostro
paese non riesce ad offrire una stabilità, un futuro decente
ai giovani che arrivano nel nostro paese, tutto il lavoro che
si fa nell’accoglienza è certamente un investimento andato a
buon fine per le persone stesse ma è un investimento perso
e sprecato se si ragiona in termini macro pensando al futuro
dell’Italia. E’ una questione sicuramente aperta che merita riflessioni adeguate.
Jahela Milani