Dance&Culture N°1-2-3/2017 D&C16-1-2-3-2017 | Page 39

da quella magica arte che è la Danza, che è un tutt’uno con il suo essere. Espresso questo mio desiderio, seduti comodamente sul diva- no uno di fronte all’altro, ero lì con la sensazione di essere andata a trovare uno zio che dal baule dei ricordi estraesse foto da mostrarmi per ricom- porre piano piano il puzzle di una vita ed io, come i bimbi curiosi ed estasiati di ascolta- re storie di un tempo che fu, mi sono ritrovata tutt’a un tratto calata in quella dimensione. Quanto ti senti italiano? Mi sento più italiano o spa- gnolo che inglese. Spesso in Inghilterra mi sento straniero e gli stessi inglesi non mi repu- tano anglosassone, infatti più di una volta mi è stato detto: Perché non te ne torni in Spa- gna? Gli inglesi sono molto nazionalisti e poco aperti a mio avviso. E’ difficile riuscire a definirti perché la tua arte non sembra avere confini… E’ impossibile definire il mio lavoro. Il mio stile attinge dal teatro antico e primitivo, ma anche dal teatro popolare musicale, amo molto il tea- tro napoletano. Il mio lavoro è stato spesso definito teatro d’avanguardia, ma in real- tà il mio primo interesse è il pubblico; lo scopo dell’arte è aprire e toccare i cuori degli spettatori. Per me la danza non deve necessariamente raccontare una storia ma sortire emozioni. Com’era la tua famiglia? Mia madre era vedova, mio padre, morto in guerra, era un marinaio, ho avuto una sorella che purtroppo è morta molto giovane. La figura di mio padre e il suo lavoro hanno avuto un peso non indifferente su mia madre e di conseguenza sulla mia vita. Mia madre era una grande appassionata di teatro e mi ha sempre portato con lei alle rappresentazioni; è stata pro- prio lei a trasmettermi l’amo- re per l’arte. Avevo solo 4 anni quando decisi che la danza doveva entrare nella mia vita, erano tante le amichette di scuola che danzavano e mi mostravano passi e balletti e io ne rimanevo incantato. A 4 anni avevo già una visione di ciò che volevo essere e an- che il mio modo di vestire mi identificava rispetto agli altri bambini. Ero piccolo quando iniziai a organizzare nel cortile di casa dei piccoli spettaco- li con gli amichetti di scuola. Tutto era pensato nel detta- glio, non solo la parte artistica, ma anche quella organizzati- va. Si chiedevano le sedie in prestito ai vicini per preparare la platea e facevamo anche pagare il biglietto. I costumi li cucivamo noi bambini e io co- ordinavo il tutto. C’era la guer- ra ma noi volevamo sognare. Sono cresciuto con i bombar- damenti ed ogni volta che sentivo la sirena correvo nel rifugio dove mi capitava di intrattenere i vicini ballando: uno di loro, Douglas, suonava il Sax, io ballavo con le scarpe da tip tap e una vicina aveva 39