da quella magica arte che
è la Danza, che è un tutt’uno
con il suo essere.
Espresso questo mio desiderio,
seduti comodamente sul diva-
no uno di fronte all’altro, ero
lì con la sensazione di essere
andata a trovare uno zio che
dal baule dei ricordi estraesse
foto da mostrarmi per ricom-
porre piano piano il puzzle di
una vita ed io, come i bimbi
curiosi ed estasiati di ascolta-
re storie di un tempo che fu, mi
sono ritrovata tutt’a un tratto
calata in quella dimensione.
Quanto ti senti italiano?
Mi sento più italiano o spa-
gnolo che inglese. Spesso in
Inghilterra mi sento straniero e
gli stessi inglesi non mi repu-
tano anglosassone, infatti più
di una volta mi è stato detto:
Perché non te ne torni in Spa-
gna? Gli inglesi sono molto
nazionalisti e poco aperti a
mio avviso.
E’ difficile riuscire a definirti
perché la tua arte non sembra
avere confini…
E’ impossibile definire il mio
lavoro. Il mio stile attinge dal
teatro antico e primitivo, ma
anche dal teatro popolare
musicale, amo molto il tea-
tro napoletano. Il mio lavoro
è stato spesso definito teatro
d’avanguardia, ma in real-
tà il mio primo interesse è il
pubblico; lo scopo dell’arte è
aprire e toccare i cuori degli
spettatori.
Per me la danza non deve
necessariamente raccontare
una storia ma sortire emozioni.
Com’era la tua famiglia?
Mia madre era vedova, mio
padre, morto in guerra, era un
marinaio, ho avuto una sorella
che purtroppo è morta molto
giovane.
La figura di mio padre e il suo
lavoro hanno avuto un peso
non indifferente su mia madre
e di conseguenza sulla mia
vita.
Mia madre era una grande
appassionata di teatro e mi
ha sempre portato con lei alle
rappresentazioni; è stata pro-
prio lei a trasmettermi l’amo-
re per l’arte. Avevo solo 4 anni
quando decisi che la danza
doveva entrare nella mia vita,
erano tante le amichette di
scuola che danzavano e mi
mostravano passi e balletti e
io ne rimanevo incantato.
A 4 anni avevo già una visione
di ciò che volevo essere e an-
che il mio modo di vestire mi
identificava rispetto agli altri
bambini. Ero piccolo quando
iniziai a organizzare nel cortile
di casa dei piccoli spettaco-
li con gli amichetti di scuola.
Tutto era pensato nel detta-
glio, non solo la parte artistica,
ma anche quella organizzati-
va. Si chiedevano le sedie in
prestito ai vicini per preparare
la platea e facevamo anche
pagare il biglietto. I costumi li
cucivamo noi bambini e io co-
ordinavo il tutto. C’era la guer-
ra ma noi volevamo sognare.
Sono cresciuto con i bombar-
damenti ed ogni volta che
sentivo la sirena correvo nel
rifugio dove mi capitava di
intrattenere i vicini ballando:
uno di loro, Douglas, suonava
il Sax, io ballavo con le scarpe
da tip tap e una vicina aveva
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