City Life Magazine 33 | Page 49

DIGITAL UTILITY che deve prendere forma, strutturarsi in maniera più chiara ed essere in grado di produrre un modello al quale – seppur non in maniera stringente – richiamarsi. Certamente non è più il tempo delle iniziative di singole realtà locali, come amministrazioni pubbliche o utility che, pur volonterose e illuminate, non sono più sufficienti. Per le utility la smart city dovrebbe essere il primo segmento di un disegno complessivo che comprende certamente i servizi smart dedicati alla cittadinanza, ma anche un livello superiore che riguarda direttamente la gestione della realtà urbana. La chiave di volta di questa trasformazione sta nella capacità di interpretare e analizzare le enormi quantità di dati – big, appunto – che provengono dagli “oggetti” (lampioni, semafori, contatori e altri) disseminati per la città. Quindi governare i dati per avere informazioni precise e utili per governare meglio la città, per aiutare i decisori politici a scegliere strategicamente, supportati non solo da riflessioni e previsioni ma da numeri e cifre in grado di disegnare fenomeni e realtà già esistenti. A partire dal piccolo. Un esempio proveniente da Milano e promosso da A2A Smart City, società della multiutility lombarda dedicata ai servizi per la città intelligente. Apporre dei sensori sui cestini dell’immondizia che inviano segnali quando sono pieni è senz’altro molto utile per ottimizzare la raccolta da parte degli operatori che non perderanno tempo e risorse nel recarsi presso quei punti dove non serve il loro intervento. Ma non solo. Analizzare i dati inviati dai cestini durante un determinato lasso di tempo può servire anche a meglio distribuire la loro collocazione, magari segnalando la necessità di un terzo in una piazza dove 49 ve ne sono solo due (specialmente se quei due sono sempre pieni). Insomma, non solo migliorata operatività per gli addetti e un servizio più puntuale per i cittadini, ma anche possibilità di prendere decisioni che abbiano un impatto più generale, a un livello più alto, “strategico”. Tuttavia, per arrivare a un cruscotto di comando così articolato è necessario stabilire come sarà la cornice progettuale dentro la quale tutte queste cose devono avvenire. Il concetto di smart city è sufficiente? E soprattutto è applicabile a buona parte del nostro Paese? La questione è oltremodo delicata perché, se non affrontata in maniera chiara, potrebbe generare conseguenza negative. Il tema è duplice. Da una parte non bisogna dimenticare il quadro demografico nazionale, con la presenza e la prevalenza di realtà di piccole dimensioni: il 70% dei comuni italiani ha, infatti, una popolazione pari o inferiore ai 5 mila abitanti, mentre sono solo 12 le città con più di 250mila abitanti. Dall’altra non si deve correre il rischio di creare soggetti definibili come di “serie A” e altri di serie inferiori, con le città più grandi pronte a intercettare l’interesse e i finanziamenti a scapito delle piccole. Uno scenario da evitare perché, al di là delle dimensioni, le seconde garantiscono la stessa qualità della vita e le stesse opportunità per le imprese, delle prime. Meglio allora introdurre anche il concetto di smart land e ragionare in senso territoriale oltre che urbano. Il pericolo è che si ricada nello scenario di digital divide degli anni Novanta, con gli abitanti di un’importante porzione del Paese a dover sopportare e subire il peso di questa esclusione.